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Silenzi e parole negli ultimi giorni di vita
Prezzo: 23 €
Autore: Marco Bonetti, Marina Rossi, Corrado Viafora (a cura di)
Casa editrice: FrancoAngeli
Anno di pubblicazione: 2003
ISBN: 88-464-4598-8
La ricerca di fondo che anima e unifica i contributi raccolti nel presente volume si articola attorno al confronto tra diverse interpretazioni della dimensione umana della morte e del morire. Si tratta perciò di un approccio essenzialmente antropologico, presupposto ineludibile, per quanto riguarda il livello assistenziale, di ogni programma di umanizzazione dell'assistenza al malato terminale e, per quanto riguarda il livello più specificamente etico, passaggio obbligato di un'adeguata istruzione dei problemi che insorgono nel contesto delle Cure Palliative. Sviluppatosi nella prospettiva dell'umanizzazione del morire, contro il progressivo impoverimento umano cui il morire è esposto all'epoca della tecnicizzazione della medicina, il movimento delle cure palliative non è esente da una connotazione di ambiguità: tentativo di socializzazione del morire, oppure nuova forma di medicalizzazione? La soluzione di questa ambiguità richiede di ravvivare l'intenzionalità originaria delle Cure Palliative: aiutare a vivere fino alla fine. É in sostanza l'intenzione di valorizzare il tempo del morire, sottrarlo alla deriva della residualità, al rischio della logica della "rottamazione". Nel presupposto che, anche nella fase terminale, un paziente rimane persona e in quanto tale in grado, se posto nelle adeguate intenzioni, di fare dell'ultimo tratto della sua vita, un'esperienza di crescita. E tuttavia, se questo presupposto offre un chiaro orientamento, si deve tener conto delle difficoltà che la pratica dell'accompagnamento del malato terminale comporta. Di fronte alla richiesta di prestazioni di alta intensità solidaristica che l'accompagnamento comporta, come non notare l'incongruenza tra questa richiesta e il diffuso atteggiamento di "apatia" che si pone nei confronti della sofferenza in termini di pregiudiziale rifiuto? Se per concetto di "terapia" viene tradizionalmente inteso solo l'intervento finalizzato a risolvere o migliorare uno stato negativo, com'è possibile un impegno terapeutico in una realtà che è inguaribile? Con quali motivazioni alimentare l'impegno terapeutico-assistenziale? Su quali livelli di competenza si possono o si devono investire le proprie aspirazioni professionali anche per la cura del malato per il quale "non c'è più niente da fare" in termini di guaribilità?
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